La storia della mafia Siciliana (Cosa Nostra) è un argomento non facile da trattare per un Siciliano. Vuoi perché è una etichetta che ci viene assegnata dal resto del mondo o vuoi per il fatto che bene o male se sei nato sull’isola ci hai avuto in qualche modo a che fare (anche solo con la mentalità mafiosa che ci circonda ancora oggi).
Questo è un viaggio che non ha niente a che fare con cannoli e granite (anche se, diciamocelo, preferirei parlare di quelli), ma è sicuramente importantissimo da percorrere se si vuole conoscere la storia della Sicilia (e non solo).
Stiamo per esplorare la storia della mafia siciliana, un fenomeno che ha segnato la nostra terra più profondamente delle eruzioni dell’Etna.
Come siciliano, parlare di criminalità organizzata non è mai facile.
È come quando la nonna ti chiede perché non sei ancora sposato durante il pranzo di Natale – sai che devi affrontare l’argomento, ma preferiresti evitarlo.
Eppure, per capire la Sicilia di oggi, dobbiamo guardare in faccia questa parte della nostra storia, con onestà e senza giri di parole.
Le Origini: Quando Tutto Iniziò (E No, Non Fu Colpa degli Arabi )
Sapete quella storia che la mafia siciliana è nata con i Normanni o degli Arabi?
Ecco, dimenticatela. È come dire che la pizza è stata inventata in Svezia – semplicemente non ha senso.
Il fenomeno mafioso come lo conosciamo oggi ha messo radici nella Sicilia del XIX secolo, in particolare nella Sicilia occidentale, quando l’isola stava vivendo un periodo di cambiamenti.
La vera storia della criminalità organizzata in Sicilia inizia con l’abolizione del feudalesimo nel 1812.

Immaginate la scena: i baroni, comodi nei loro palazzi, iniziano a vendere o affittare le terre.
Chi se le prende? I “gabelloti“, una classe di amministratori terrieri che erano più svegli di una caffettiera napoletana appena messa sul fuoco.
Questi signori non solo gestivano le terre, ma iniziarono anche a offrire “servizi di protezione” – e quando dico protezione, intendo lo stesso tipo di protezione che ti offre un bullo delle superiori: o paghi, o sono guai.
La parola “mafia” stessa ha una storia curiosa. All’inizio non era nemmeno un termine negativo (lo so, sembra assurdo come dire che il cannolo non è dolce).
Deriva dall’arabo “mahyas” che significa “spavaldo, aggressivo”, o secondo altri da “mu’afah” che significa “protezione”. I primi mafiosi si facevano chiamare “uomini d’onore“, che è un po’ come chiamare “diet” una cassata siciliana – un bell’esercizio di fantasia.
La prima vittima ufficiale di questa “protezione” fu Emanuele Notarbartolo, ex sindaco di Palermo e direttore del Banco di Sicilia, ucciso nel 1893.
Un omicidio che fece più rumore di una cassata caduta per terra durante una festa di matrimonio. Ma non fu certo la prima vittima in assoluto: contadini, commercianti e attivisti morivano da anni nel silenzio generale, come se fossero invisibili quanto il menu dietetico in una trattoria siciliana.
Lo storico John Dickie nel suo libro “Cosa Nostra” descrive perfettamente come la mafia si sia infiltrata in ogni aspetto della società siciliana dell’epoca: dalla gestione dell’acqua al controllo dei mercati ortofrutticoli di Palermo (dove si decideva il prezzo dei pomodori ancora prima che venissero raccolti).
La mafia divenne quello che gli esperti chiamano un “sistema di potere“, io lo chiamerei un “sistema operativo criminale” – solo che invece di aggiornamenti automatici, mandava avvertimenti molto più diretti.
Il primo rapporto ufficiale sulla mafia? Lo scrisse nel 1876 il deputato Leopoldo Franchetti. Lui e Sidney Sonnino (che non erano esattamente due sprovveduti) realizzarono la prima vera inchiesta sulla Sicilia occidentale. Il loro report era più dettagliato di una ricetta di cannoli tramandata di generazione in generazione, e altrettanto prezioso: fu il primo a descrivere la mafia come un’organizzazione criminale strutturata e non come un semplice fenomeno di banditismo.
La “Vecchia Mafia”: I Tempi dei Gabelloti
Se pensate che la mafia agraria fosse solo un gruppo di contadini arrabbiati, vi sbagliate di grosso. È come confondere un cannolo siciliano con un Twix – proprio non si fa.
La “vecchia mafia” era un sistema più organizzato di una processione religiosa, e decisamente meno santo.
I primi boss mafiosi erano quelli che possiamo chiamare “imprenditori della violenza“.
Immaginate il tipico gabellotto: ben vestito, rispettato in chiesa la domenica, sempre pronto a fare “favori“. Ma dietro i sorrisi e le strette di mano, gestiva un business basato sull’intimidazione che avrebbe fatto sembrare un asilo nido un’organizzazione criminale.
Questi “rispettabili signori” controllavano tutto: dall’acqua per l’irrigazione (più preziosa del sangue in Sicilia) al prezzo del grano, dai matrimoni alle dispute tra vicini.
La famiglia mafiosa tipo di quel periodo aveva una struttura più complessa della ricetta della pasta alla Norma di mia nonna.
C’era il capo famiglia (che non era esattamente il tipo che trovate su “MasterChef”), i suoi consiglieri, e poi una rete di “soldati” pronti a tutto.
Le prime vittime? I piccoli proprietari terrieri che si rifiutavano di pagare il “pizzo” (che loro chiamavano elegantemente “protezione“), sindacalisti come Bernardino Verro – ucciso nel 1915 – e contadini che osavano alzare la testa.
Non pensate però che la violenza fosse l’unico strumento. La vecchia mafia aveva capito una cosa fondamentale: meglio essere temuti e rispettati che solo temuti (una lezione che alcuni politici moderni farebbero bene a imparare).
Creavano alleanze, sistemavano dispute, si presentavano come benefattori. Era come avere un padrino di battesimo che però, se non gli piaceva come battezzavi il bambino, poteva farti trovare una testa di cavallo nel letto – con rispetto parlando per “Il Padrino”.
I legami con la politica iniziarono proprio in questo periodo.
La mafia divenne l’intermediario perfetto tra i potenti di Palermo e Roma e la popolazione locale. Come diceva mio nonno: “Cu avi amici, è povero di uai” (Chi ha amici è povero di guai).
Solo che in questo caso, gli “amici” erano più pericolosi dei nemici.
La Prima Guerra di Mafia: Quando le Cose Si Fecero Serie
La prima guerra di mafia scoppiò nei primi anni ‘60, e non fu esattamente come una lite per l’ultimo cannolo in pasticceria.
Pensate a una faida familiare, moltiplicatela per mille, aggiungete il traffico di stupefacenti, e avrete solo un’idea di quello che successe.
Era il periodo in cui la vecchia guardia della mafia siciliana, quelli che ancora si atteggiavano a “gentiluomini” (come se un lupo potesse passare per un agnello), si scontrava con una nuova generazione di boss mafiosi più affamati di una famiglia siciliana a Pasqua.
Il pretesto? Il controllo del mercato dell’eroina, che prometteva più soldi di quanti ne potesse contare il cassiere della Banca d’Italia.
Il momento che fece capire a tutti che non si trattava dei soliti “screzi” fu la strage di Ciaculli del 1963. Una Giulietta imbottita di tritolo esplose uccidendo sette carabinieri e militari.
Fu come se qualcuno avesse rovesciato un tavolo durante una partita a scopa – le regole del gioco erano cambiate per sempre.
Per la prima volta, lo Stato non poté far finta di niente, come quando tua nonna ti chiede se hai mangiato abbastanza e tu annuisci anche se hai divorato mezza dispensa.
La guerra si concluse con un bilancio pesante : oltre 100 morti tra boss di cosa nostra, picciotti e, purtroppo, innocenti.
Vinse la fazione di Michele Greco, detto “il Papa” (e non perché fosse particolarmente religioso, vi assicuro).
Ma la vera vincitrice fu una nuova generazione di mafiosi che aveva capito una cosa: il potere non stava più nelle campagne, ma nel cemento delle città e nel commercio dell’eroina.
Tra le vittime di quel periodo c’è anche il giornalista Mauro De Mauro, scomparso nel 1970 mentre indagava su affari scottanti . Il suo corpo non è mai stato trovato, una delle tante “lupare bianche” che hanno segnato la storia della criminalità organizzata in Sicilia.
Fu in questo periodo che un giovane e ambizioso corleonese iniziò a farsi notare.
Il suo nome era Salvatore Riina, detto Totò, e aveva progetti più grandi di una porzione di pasta alla boscaiola della mia nonna.
Ma questa è un’altra storia, che vi racconterò nel prossimo capitolo.
L’Era dei Corleonesi: Da Villaggio a Impero
Se la prima guerra di mafia fu come un terremoto, l’ascesa dei Corleonesi fu uno tsunami che cambiò per sempre il panorama di Cosa Nostra.
E al centro di tutto c’era lui, Totò Riina, un tipo che aveva l’aria di un contadino tranquillo ma l’ambizione di un imperatore romano – e la stessa tendenza alla clemenza di Nerone, per intenderci.
La seconda guerra di mafia (1981-1983) fu più sanguinosa di una puntata finale di Game of Thrones. I Corleonesi, guidati da Riina e Bernardo Provenzano, eliminarono sistematicamente la vecchia guardia palermitana. Sto parlando di Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo e tanti altri boss mafiosi che si credevano intoccabili come la ricetta originale del cannolo siciliano. La strategia era semplice: o stavi con loro, o finivi nella lista delle “persone da incontrare” – e non era esattamente un invito a prendere un caffè.

Ma non furono solo i mafiosi a cadere. In quegli anni persero la vita anche personaggi che stavano dalla parte giusta della legge. Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, inviato a Palermo come prefetto, fu ucciso dopo soli 100 giorni dal suo arrivo, insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro. Pio La Torre, il politico che aveva proposto la legge per rendere il reato di associazione mafiosa un crimine specifico, fu assassinato nel 1982. Era come se i Corleonesi volessero mandare un messaggio più chiaro di un cartello stradale: nessuno poteva mettersi sulla loro strada.
La “vittoria” dei Corleonesi portò a un cambiamento radicale nel modo di gestire Cosa Nostra.
Se prima c’era una sorta di “galateo criminale” (sì, lo so, suona assurdo come una dieta durante le feste di Natale in Sicilia), con Riina le regole divennero più semplici: o comando io, o comando sempre io.
La Cupola di Cosa Nostra si trasformò da “consiglio di amministrazione” a monarchia assoluta, con Riina nel ruolo di re Sole – solo che invece di dire “Lo Stato sono io“, lui pensava “La Mafia sono io“.
L’apice di questa strategia del terrore furono le stragi del 1992-1993.
Ma questa è una storia così dolorosa che merita un capitolo a parte.
Come diceva mia nonna: “Certe minestre è meglio farle raffreddare prima di mangiarle” – anche se in questo caso, sono passati 30 anni e ancora brucia come il primo giorno.
Gli Eroi dell’Antimafia: Non Tutti i Siciliani Stanno a Guardare
Se c’è una cosa che mi fa arrabbiare più di vedere qualcuno che mette l’ananas sulla pizza, è sentir dire che i siciliani sono tutti mafiosi o complici. Per ogni mafioso che ha sporcato la nostra terra, ci sono stati cento siciliani che hanno combattuto per ripulirla. E alcuni l’hanno fatto pagando il prezzo più alto.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono i nomi che tutti conoscono, come il Cannolo e la Cassata. Ma la loro storia non inizia con le stragi del ’92. Questi due magistrati, amici fin dall’infanzia nel quartiere della Kalsa a Palermo (più uniti di pasta e sugo), avevano iniziato la loro battaglia contro Cosa Nostra molto prima.
Di Sconosciuto – Wikipedia.it (Giovanni Falcone: per non dimenticare!), Pubblico dominio, Collegamento
Lavorando nel pool antimafia creato da Rocco Chinnici (anche lui ucciso da un’autobomba nel 1983 – vedete il pattern?), avevano capito che la mafia non era invincibile come voleva far credere. Era più simile a una piovra, sì, ma una che poteva essere sconfitta se si tagliavano i tentacoli giusti.
Il Maxiprocesso del 1986-87 fu il loro capolavoro, più monumentale del Duomo di Monreale.
Per la prima volta, centinaia di mafiosi si trovarono sul banco degli imputati contemporaneamente.
Fu come organizzare un pranzo di Natale siciliano, solo che invece dei parenti c’erano i criminali più pericolosi d’Italia, e al posto del cenone c’erano ergastoli da servire.
Le condanne furono pesanti come una caponata doppia porzione: 346 condanne per un totale di 2.665 anni di carcere, più 19 ergastoli.
Ma sapete qual è la parte più triste? Falcone e Borsellino sapevano che stavano giocando una partita mortale.
Come diceva Falcone: “La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine“.
Non fece in tempo a vedere quella fine. Il 23 maggio 1992, sull’autostrada per Palermo, un’esplosione potente mise fine alla sua vita, a quella della moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta.
Cinquantasette giorni dopo, in Via D’Amelio, toccò a Paolo Borsellino.
Come se non bastasse il dolore per la perdita dell’amico, come se non bastasse la consapevolezza di essere il prossimo della lista, continuò a lavorare fino all’ultimo giorno.

Il 19 luglio 1992, un’altra autobomba. Un’altra strage. Altri servitori dello Stato che non tornarono a casa dalle loro famiglie.
Ma sapete qual è la cosa più importante da ricordare?
Falcone e Borsellino non sono morti invano! Il loro sacrificio ha svegliato qualcosa nei siciliani, specialmente nei giovani.
Come diceva Borsellino: “La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.”
I Collaboratori di Giustizia: Quando i Mafiosi Iniziano a Parlare
Se la storia della mafia siciliana fosse un film, i collaboratori di giustizia sarebbero quei colpi di scena che non ti aspetti, come trovare un ripieno di pistacchio in un cannolo quando pensavi fosse alla ricotta.
E il primo, il più importante, fu Tommaso Buscetta.
Nel 1984, Buscetta decise di parlare con Giovanni Falcone. Non fu una semplice confessione, fu come se qualcuno avesse finalmente dato a Falcone il libretto di istruzioni della mafia.
Pensate a uno di quei mobili dell’IKEA: puoi anche intuire come si monta, ma finché non hai le istruzioni giuste rischi di ritrovarti con un comodino che sembra una libreria.
Buscetta spiegò tutto: la struttura delle famiglie mafiose, i rituali di iniziazione, i codici d’onore (che di onorevole avevano quanto un politico corrotto).
Ma il “regalo” più grande che Buscetta fece alla giustizia fu sfatare il mito dell’impossibilità di sconfiggere la mafia.
Come disse lo stesso giudice: “La mafia non è invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà una fine“.
Altri collaboratori di giustizia seguirono l’esempio.
Salvatore Contorno (che parlava in codice come mia nonna quando non vuole farsi capire dal resto della famiglia), Antonino Calderone, Leonardo Messina.
Ognuno aggiunse un pezzo al puzzle, come quando tutta la famiglia collabora per fare la salsa di pomodoro. Il risultato? Il più grande processo contro la mafia mai celebrato: il Maxiprocesso di Palermo.
Ma attenzione: diventare “pentito” non era come cambiare marca di caffè.
Il prezzo da pagare era altissimo. Molti collaboratori di giustizia persero tutto: famiglia, amici, identità. Alcuni pagarono con la vita dei loro cari.
Cosa Nostra si vendicò come solo lei sapeva fare, colpendo mogli, figli, fratelli. La vendetta trasversale, la chiamavano.
Questi “traditori” (che, ovviamente appartenevano alla fazione che aveva perso la guerra di mafia), come li chiamava la mafia, hanno cambiato per sempre il modo di combattere la criminalità organizzata.
Come dice un vecchio proverbio siciliano: “Cu avi lingua passa u mari” – chi sa parlare, attraversa il mare. E loro hanno attraversato un mare in tempesta, permettendo alla giustizia di navigare in acque prima inesplorate.
La Mafia nel Nuovo Millennio
Se pensate che la mafia siciliana oggi sia quella dei film in bianco e nero, con coppola e lupara, vi sbagliate più di chi mette il parmigiano sulla pasta con le sarde.
La criminalità organizzata del nuovo millennio si è fatta smart come l’ultimo iPhone, solo che invece di app sviluppa nuovi metodi per riciclare denaro.
Dopo l’arresto dei boss storici – Totò Riina nel ’93, Bernardo Provenzano nel 2006 (dopo 43 anni di latitanza, più lungo di una maratona di serie TV su Netflix) – e infine Matteo Messina Denaro nel 2023, Cosa Nostra ha dovuto reinventarsi.
Come dice mio zio pasticciere: “O ti aggiorni o chiudi bottega”. Solo che in questo caso non parliamo di cannoli, ma di criminalità organizzata.
Il nuovo business? Un mix più variegato di una cassata siciliana: appalti truccati, energie rinnovabili (sì, anche la mafia è diventata “green”, ma non per amore dell’ambiente), gioco d’azzardo online, e persino il traffico di rifiuti tossici.
Il traffico di stupefacenti resta un classico, come la granita col brioche.

Le nuove vittime? Gli imprenditori che non cedono al pizzo 2.0.
Perché ora il pizzo non si chiede più con la coppola in testa e la lupara sotto il braccio.
È come se la mafia si fosse iscritta a un corso di programmazione, solo che invece di sviluppare videogiochi, sviluppa sistemi per rubare.
Ma la cosa più preoccupante è che la mafia siciliana ha imparato a essere invisibile come il sale nella pasta.
Niente più esplosioni eclatanti o sparatorie in pieno giorno.
Ora preferisce infiltrarsi nell’economia legale, come un virus che entra nel sistema operativo.
Compra società in difficoltà (e con la crisi ce ne sono più che sassi in Sicilia), investe in settori insospettabili, usa prestanome più puliti di un certificato penale immacolato.
E poi c’è l’espansione al Nord, dove la mafia si è trasferita come un pensionato in cerca di quiete, solo che invece di giocare a bocce, gioca in borsa.
Milano, la capitale del business italiano, è diventata anche la capitale del riciclaggio mafioso. Come dice un nuovo proverbio siciliano (l’ho inventato io): “Unni ci su’ soddi, ci su’ mafiusi” – dove ci sono i soldi, ci sono i mafiosi.
L’Eredità e il Futuro: C’è Speranza?
Ve lo dico subito: parlare del futuro della lotta alla mafia siciliana è più complicato che spiegare a un turista milanese la differenza tra arancino e arancina.
Ma una cosa è certa: la Sicilia di oggi non è più quella che si piegava al silenzio e alla paura.
Vedete, il vero cambiamento è partito dal basso.
Sono i ragazzi delle scuole che partecipano ai progetti della lotta contro la mafia, i commercianti che denunciano il pizzo (più coraggiosi di chi assaggia la caponata della suocera per la prima volta), le associazioni come Addiopizzo e Libera che hanno trasformato la resistenza alla criminalità organizzata in un movimento di massa.
Le terre confiscate ai mafiosi? Ora ci lavorano cooperative di giovani che producono vino, olio, pasta. Il famoso “oro della mafia” è diventato l’oro della legalità.
Come dice un mio amico agricoltore: “La terra non è sporca, dipende da chi la lavora“. E questi ragazzi la lavorano con le mani pulite e la schiena dritta.
Ma non illudiamoci: la mafia è come una biscia, quando pensi di averla acchiappata per la coda, trova il modo di sgusciare via.
I clan si sono adattati, sono diventati più sofisticati di un sommelier a una degustazione di Marsala. Invece delle bombe, usano commercialisti; al posto delle lupare, algoritmi e computer.
La vera sfida oggi? È quella che Giovanni Falcone aveva già capito trent’anni fa: seguire i soldi.
Ma ora quei soldi non sono più nelle cassette di sicurezza, viaggiano nel cyberspazio più velocemente di un Click Day per il bonus vacanze.
E poi c’è la zona grigia, quella degli insospettabili, dei colletti bianchi che fanno più danni di un temporale durante una scampagnata.
Come ci ricordano le associazioni dei familiari delle vittime (veri eroi che portano avanti il peso della memoria con la stessa dignità con cui una nonna siciliana porta la sua specialità alla festa di paese), non possiamo permetterci di abbassare la guardia. La lotta alla mafia è come una granita al limone: se la lasci lì, si scioglie.
Ma io resto ottimista, testardo come un mulo siciliano. Perché vedo i giovani che non abbassano più gli occhi, le donne che denunciano, i bambini che nelle scuole imparano che la mafia non è un destino ineluttabile ma una scelta, e che si può scegliere di stare dall’altra parte.
Conclusione: Cosa Abbiamo Imparato?
Eccoci qui, alla fine di questo viaggio nella storia della mafia siciliana.
Cosa abbiamo imparato? Primo: la criminalità organizzata non è un destino scritto nel DNA dei siciliani, come qualcuno vorrebbe far credere.
È un fenomeno mafioso che abbiamo combattuto, che combattiamo e che continueremo a combattere.
Secondo: per ogni mafioso che ha sporcato la nostra terra, ci sono stati dieci siciliani che hanno lottato per ripulirla.
Dalle vittime innocenti come Peppino Impastato (che aveva più coraggio lui da solo che un esercito intero), ai magistrati come Giovanni Falcone, dai giornalisti come Mario Francese agli imprenditori che oggi dicono no al pizzo.
La lista è più lunga della fila per un cannolo fresco la domenica mattina.
Terzo: la lotta alla mafia non è una questione solo di legge e ordine, come non è solo di ingredienti una buona caponata.
È una questione di cultura, di educazione, di scelte quotidiane.
Ogni volta che un ragazzo sceglie di denunciare, ogni volta che un commerciante si unisce ad Addiopizzo, ogni volta che un insegnante parla di legalità in classe, è una vittoria. Piccola magari, come un granello di sale, ma fondamentale.
La strada da fare è ancora lunga. La mafia si è trasformata, è diventata più subdola di un venditore di “orologi originali” al mercato. Ma noi siciliani siamo più testardi di un mulo in salita. E soprattutto, abbiamo imparato che il silenzio non è più un’opzione.
Come dice un vecchio proverbio siciliano che mi ha insegnato mio nonno: “Cu simina spini, nun po’ caminari scalzu” – chi semina spine non può camminare scalzo.
La mafia ha seminato tanto dolore, ma ha raccolto una resistenza che cresce ogni giorno di più.
E ricordatevi: la prossima volta che qualcuno vi parla della Sicilia solo come terra di mafia, raccontategli questa storia.
Raccontategli dei nostri eroi, delle nostre vittorie, delle nostre speranze.
Perché la Sicilia è come una cassata: ha tanti strati, e quelli più buoni sono quelli che non si vedono subito.
Fine della storia? No, è solo l’inizio di un nuovo capitolo. Perché come diceva Giovanni Falcone: “Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.”
E noi continueremo a camminare, a testa alta, più determinati di una nonna siciliana che deve preparare il pranzo della domenica. Perché la Sicilia è nostra, non loro.